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Giovanni Caputo - 22 novembre 2008

Il difficile compito di rispettare le leggi dello Stato e le idee degli altri

Per un credente è giusto che i principi in cui si riconosce diventino legge dello Stato e che, quindi, le sue credenze religiose, divenute leggi, siano obbligatorie per tutti.

Per un credente lo Stato non dovrebbe regolamentare il diritto dei cittadini a ricorrere al divorzio, né avrebbe mai dovuto dotare il Paese di una legge come la 194 del ’78, che permette l’interruzione volontaria della gravidanza.

Per il credente bene ha fatto il Parlamento a vietare alcune tecniche riguardanti la fecondazione assistita e a non legiferare sulle coppie di fatto.

Ma ciò che è bene e giusto per un credente non necessariamente deve diventare legge di uno Stato.

Il Parlamento di uno Stato che legiferasse: sulla nascita, sulla procreazione, sulle unioni e sulla morte, sotto i dettami dei credenti di una singola fede, verrebbe meno alla funzione di garante delle libertà e dei diritti di tutti i suoi cittadini.

Il legittimo diritto del credente, a restare fedele alla sua Chiesa e ai comandamenti che gli vengono dalla Dottrina, non può prevaricare il diritto dei singoli che non si riconoscono in quei principi.

Benché tali argomentazioni siano, ormai, patrimonio comune a credenti e non credenti, è necessario ribadirle.

Pertanto, quando la Chiesa non accetta il valore della sentenza della Cassazione e nega il diritto del singolo a non voler vivere come un vegetale, deve essere chiaro che parte da considerazioni di fede e quindi il messaggio è indirizzato a quanti si riconoscono in quella fede. Quella stessa fede che vede nella morte un disegno divino, che la scienza non deve manipolare.

Ma, allora, se la morte è un evento naturale, inserito in un progetto divino, proiettato verso la vita eterna, perché mai il credente, dinanzi ad un organo dello Stato che afferma i principi della Costituzione a garanzia della libertà di tutti, usa la lingua in maniera aggressiva e parla di omicidio di Eluana? Perché alimenta equivoci e lacera le coscienze, non ultima quella di un padre già fortemente scosso e provato da un calvario durato sedici anni?

Almeno che qualcuno non ritenga che lo Stato non abbia il diritto di garantire la libertà dei suoi cittadini dinanzi alla morte e che questo diritto spetti solo alla religione cattolica.

Così come spetti alla religione indicare i percorsi sulla fecondazione, sull’interruzione della gravidanza, sulla gestione della vita di coppia, sulla separazione matrimoniale.

La condizione di Eluana, come la richiesta di Piergiorgio Welbi, si presta a diventare terreno di scontro ideologico in cui si deve affermare l’autorevolezza della religione e quindi della Chiesa, unica interprete autentica della Dottrina.

Dinanzi ai temi etici la Chiesa nega, di fatto, allo Stato la funzione di garante dei diritti dei cittadini e gli intima di non legiferare contro le indicazioni che provengono dal suo Magistero.

Quale posto occupino la pietà, il dolore e la sofferenza di un genitore in questo scontro è facile prevederlo, dal momento in cui quel padre ha scelto di chiudere con un’esperienza che personalmente non ha ritenuto più sopportabile per la propria figliola.

Giudicarlo è stato quanto di più inopportuno si potesse fare.

La sentenza della Cassazione, rispettosa del diritto di ogni cittadino a decidere per sé, qualsiasi fede o idea egli difenda, ha dato ragione al dolore di quel padre.

Questi i fatti.

Per quanto riguarda il merito, personalmente non posseggo competenze che mi diano certezze per prendere posizione, pertanto, in mancanza di queste, mi arrogo il diritto a non avere un’opinione, e pur rispettando le posizioni di monsignor Talucci , mi attengo alle decisioni della Corte.

D’altro canto, quanto reggerebbero le istituzioni se tutti ci sentiamo in dovere di condurre crociate contro quelle regole che una comunità si è data per una civile convivenza delle diverse credenze?

 

Giovanni  Caputo