Nell’epoca di 
								Molière la società era rigorosamente divisa in 
								due: il popolo, da una parte, e la nobiltà, 
								dall’altra, e il confine tra le due parti era 
								invalicabile. A metà, su quel confine 
								invalicabile, cresceva una nuova classe, la 
								borghesia. Avevano, potevano avere, denaro i 
								borghesi, arricchitisi con I commerci: magari 
								potevano alcuni avere più denaro di certi nobili 
								nullafacenti e dilapidatori dei loro patrimoni, 
								ma il confine rimaneva invalicabile.
								
								Il borghese, il nuovo ricco, il parvenu che 
								vuole, vorrebbe scavalcare quel confine 
								coprendosi di ridicolo per la sua inarrivabile 
								ambizione, è oggetto di satira nella splendida 
								commedia di Molière del 1670. La figura, qui 
								comicissima, dell’arrampicatore sociale (figura 
								già molto diffusa, anche nel secolo precedente, 
								nel teatro elisabettiano) diventerà poi figura 
								drammatica, e infine tragica, nel secolo 
								successivo e soprattutto nel successivo ancora, 
								nell’Ottocento, in tutte le letterature europee, 
								non solo in Francia. E vengono in mente 
								Thackeray, Thomas Hardy, Maupassant, Gissing…
								Ma nello scanzonato mondo di Molière la 
								tragicità della divisione per classi, no, non 
								esisteva. C’erano le secolari barriere di 
								sempre, sentite come naturali, ineluttabili, 
								inattaccabili. Tentare di uscirne era materia di 
								commedia: ne rideva la nobiltà, nella sua 
								inviolabile esclusività, ma ne rideva anche il 
								popolo, quella parte, per lo meno, del popolo 
								che poteva accedere ai teatri, e ne rideva 
								divertita e niente affatto risentita. Non era la 
								società, sbagliata: sbagliava, ed era oggetto di 
								scherno, chi cercava di modificarla, chi cercava 
								di piegare alle proprie ambizioni le millenarie 
								–e “naturali”- regole del gioco.
								Per cui nel povero borghese Jourdain che 
								vorrebbe farsi gentiluomo,e si copre di ridicolo 
								e si fa sbertucciare e sfruttare da chi gli sta 
								intorno, non c’è neppure un filo di critica 
								sociale, non un’ombra d’amarezza o di astio, non 
								uno spiraglio di speranza, non un messaggio di 
								attesa per un futuro riscatto.
								La rivoluzione arriverà un secolo e passa più 
								tardi: Molière è dalla parte dell’ordine 
								costituito e vuol solo farci ridere, anzi, farci 
								sghignazzare.
								Ci riesce? Eccome se ci riesce! E non pago, 
								anzi, del comicissimo intreccio, contamina la 
								sua commedia con la farsa, rendendola 
								“commedia-balletto”, una struttura teatrale 
								tipica dell’epoca, che non andava tanto per il 
								sottile e s’avvicinava a quella che oggi 
								chiameremmo commedia di varietà o 
								d’avanspettacolo, diffusasi nelle platee di 
								serie B nella prima metà del nostro secolo 
								appena concluso, il ventesimo, e poi diluitasi e 
								confusasi in un certo
								genere di spettacolo cinematografico.
								Dunque cerchiamo, per quanto possibile in un 
								racconto, di divertirci alla lettura di questa 
								spassosissima commedia che da tre secoli e mezzo 
								tiene banco, sempre freschissima, sui 
								palcoscenici di tutta Europa.
								
								Il signor Jourdain è un borghese che si è 
								arricchito e vorrebbe entrare nella bella 
								società, nel gran mondo: eccolo a casa sua, di 
								mattina, circondato dal maestro di musica, di 
								ballo, di scherma, di filosofia, ed eccolo 
								vestito come di mattino veste la nobiltà, così 
								almeno gli ha fatto credere il suo sarto, 
								facendo scoppiare di risa le platee al suo 
								ingresso sul palcoscenico, complici i costumisti 
								teatrali che possiamo immaginare di quali 
								pennacchi, di quali nastri, di quali sgargianti 
								e chiassosi colori sappiano agghindarlo per la 
								scena.
								C’è rivalità tra i diversi maestri che scroccano 
								denaro al nostro Jourdain e ciascuno di loro 
								ritiene e predica che la propria arte, la 
								propria scienza, è il fondamento primo 
								dell’esser un gentiluomo.
								Qualche canzonetta e qualche nota musicale gli 
								insegna il maestro di musica, qualche passo di 
								minuetto o “come si fa una riverenza quando si 
								saluta una marchesa”(II,1) gli insegna il 
								maestro di ballo, qualche mossa di spada e a 
								“tirare di terza e di quarta” e come “si ammazza 
								un uomo col solo metodo dimostrativo…”(II,3) gli 
								insegna il maestro di scherma. Ma chi fa la 
								parte del leone, tra i buffissimi maestri, è 
								quello di filosofia, il cui menu didattico 
								spazia disinvoltamente dalla logica alla fisica, 
								all’ortografia, alla fonetica.
								“Sono innamorato d’una persona del gran mondo 
								–chiede Jourdain all’astuto filosofo- e vorrei 
								che mi aiutaste a scrivere qualcosa in un 
								bigliettino che voglio lasciarle cadere ai 
								piedi…”(II,6). Lo vuole in versi o in prosa, il 
								signor Jourdain, questo bigliettino, si informa 
								il maestro: “no, non voglio né prosa né versi” 
								risponde il nostro povero borghese, che viene 
								così a sapere, invece, che “per esprimerci non 
								abbiamo che i versi o la prosa… e tutto quello
								che non è prosa è versi e tutto quello che non è 
								versi è prosa…”. E scopre, Jourdain, di parlare 
								in prosa, senza saperlo: “Come? Quando dico a 
								Nicoletta: portami le pantofole e dammi il 
								berretto da notte, questa è prosa?… Ah!
								Straordinario! Da più di quarant’anni parlavo in 
								prosa e non lo sapevo…”(II,6).
								È una battuta celebre, una delle più celebri 
								battute di Molière…
								Infine il biglietto, dopo uno spassoso 
								armeggiare di sintassi costruttiva, è scritto: 
								“Bella marchesa, i vostri begli occhi mi fanno 
								morir d’amore!” (II,6).
								E c’è poi la vestizione: per l’incontro con la 
								marchesa, su cui il nostro grullo ha messo gli 
								occhi, il sarto ha confezionato un abito che 
								presenta a Jourdain con un divertente 
								susseguirsi di valletti, che gli portano un capo 
								alla volta, facendoglielo indossare in scena in 
								un crescendo di spassose cerimonie in cui il
								povero borghese, via via che indossa un pezzo, 
								sale di grado, da “gentiluomo” a “monsignore” a 
								“vostra eccellenza”(II,9). Una sorta di 
								coreografia della beffa e della lusinga, 
								teatralmente bellissima.
								Ridono come matti tutti quanti a vedere Jourdain 
								agghindato a quel modo… Ride la servetta 
								Nicoletta, che rischia per la sua impertinenza 
								d’esser presa a schiaffi dall’adirato padrone e 
								che lo supplica così: “sentite, signore, 
								picchiatemi se volete, ma lasciatemi ridere: 
								dopo starò meglio, hi, hi, hi, hi!” (III,2). 
								Ride con amarezza la moglie, la signora Jourdain, 
								che lo attacca più preoccupata e scandalizzata 
								che divertita: “o che vuol dire, marito, 
								quell’addobbo? Volete prendere in giro la gente 
								col farvi bardare in quel modo?… Sono 
								scandalizzata dalla vita che conducete. Non 
								riconosco più la mia casa: pare che qui dentro 
								si
								sia sempre agli ultimi di carnevale…!” (III,3).
								Ma Jourdain non se ne dà proprio per vinto: 
								incapricciato com’è della bella marchesa, che 
								sta per giungere a casa sua, si lascia 
								infinocchiare dallo spasimante di lei, un conte 
								strapelato, senza il becco di un quattrino, che 
								Jourdain stima un gran signore e suo grande 
								amico, attraverso il quale crede di poter 
								mettere le mani sulla marchesa stessa. “Non è 
								tutto a mio onore se si vede venir così spesso 
								in casa mia un personaggio simile, che mi chiama 
								suo caro amico e mi tratta come fossi un suo 
								pari?” protesta Jourdain con la moglie, la quale 
								cerca, invece, col buon senso, di aprirgli gli 
								occhi: “sì, vi usa delle cortesie e vi fa dei 
								complimenti, ma vi chiede quattrini in 
								prestito…!” (III,3).
								Ha buon gioco, lo spregiudicato conte, col 
								povero Jourdain, infatuato di lui, e lo “munge 
								come una vacca” (III,4), con facilità, 
								raggirandolo come vuole. Anzi, eccolo arrivare e 
								sembra, onesta persona, smentire la signora 
								Jourdain, perché è proprio qui per pagare i 
								debiti che ha con Jourdain: “siete la persona 
								che stimo di più, parlavo proprio di voi questa 
								mattina a corte, alla sveglia del re… so 
								restituire ciò che mi si presta e riconoscere i 
								favori che mi si fanno… voglio che liquidiamo la 
								cosa e sono qui per fare i nostri conti… vediamo 
								un po’ quanto
								vi debbo…”. E fanno sì i conti, i due, la volpe 
								e l’ingenuo pollo, sommando le tante e tante 
								cifre dei prestiti… Ma qual è la malandrina 
								conclusione? “Totale: quindicimila ottocento 
								lire… Totale esatto. Aggiungetevi duecento 
								pistole che mi darete, così faremo conto tondo: 
								diciottomila franchi, che vi pagherò al più 
								presto…!” (III,4). E al danno il conte va anche 
								ad aggiungere, graziosamente, la beffa: “C’è chi 
								sarebbe felice di farmi credito, ma dato che 
								siete il mio migliore amico, mi pareva di farvi 
								torto rivolgendomi ad altri…!”(III,4).
								Ma Jourdain è ostinato: ha bisogno, crede così, 
								dell’aiuto del conte per raggiungere il cuore 
								della marchesa: “non c’è spesa che non farei pur 
								di trovare la strada del suo cuore. Una donna 
								della nobiltà ha per me un fascino indicibile e 
								vorrei questo onore a qualunque prezzo…” (III,6). 
								E infatti lo paga davvero, il pollo, qualunque 
								prezzo: ha consegnato al conte un prezioso 
								brillante affinché questi lo desse alla marchesa 
								a nome suo e che cosa ha fatto il conte, in 
								realtà? L’ha dato sì alla marchesa, ma a nome 
								proprio, impartendo a Jourdain, impaziente di 
								coglierne il frutto, opportune istruzioni: “per 
								dimostrarvi uomo di mondo –gli ha raccomandato 
								l’astuto conte- dovete comportarvi come se quel
								regalo non l’aveste fatto voi…” (III,19).
								Ma rispetto alla trama principale c’è anche una 
								trama secondaria. Jourdain ha una figlia, 
								Lucilla, con un proprio innamorato, Cleonte, e i 
								due vorrebbero sposarsi. Anche Cleonte è un 
								borghese e Jourdain non lo vuole come genero.
								Possiamo immaginarle le sue manie di grandezza: 
								“Quello che posso dirvi è che voglio avere un 
								genero gentiluomo… mia figlia sarà marchesa, a 
								dispetto di tutti e, se non vi garba, la farò 
								duchessa!” (III, 12).
								A questa coppia se ne aggiunge una secondaria: è 
								un luogo comune del teatro comico di tutti i 
								tempi che anche i rispettivi servitori dei due 
								innamorati siano innamorati tra loro. E qui sono 
								la servetta Nicoletta, che già conosciamo, 
								simpatica e coraggiosa, al servizio in casa 
								Jourdain, e Coviello, un astuto valletto di 
								Cleonte.
								C’è una scena, la decima del terzo atto, di 
								reciproche gelosie tra Lucilla e Cleonte, con un 
								duetto di battute e malintesi e frecciatine e 
								provocazioni che l’abilità scenica di Molière 
								trasforma, con l’inserimento di Nicoletta e 
								Coviello, in un quartetto rossiniano di 
								straordinaria teatralità. Un capolavoro di 
								fuochi d’artificio, un balletto di battute che 
								non ha eguali nel teatro comico.
								Ebbene, torniamo al nostro Jourdain, nel 
								frattempo trombato nei suoi disegni di conquista 
								della marchesa perché la signora Jourdain, 
								rientrata a casa nel bel mezzo di un gran pranzo 
								con conte, marchesa e marito, ha mangiato la 
								foglia, comprendendo finalmente che l’interesse 
								del marito non era solo rivolto all’amicizia per 
								il conte ma anche al fascino femminile della 
								marchesa, ed ha cacciato di casa i due 
								indesiderati e blasonati ospiti scrocconi.
								Ora il tema della commedia, le fantasie da gran 
								mondo di Jourdain, si intreccia totalmente con 
								il tema secondario: fargli accettare 
								l’indesiderato matrimonio della figlia. Ed entra 
								in scena quel gran birbante di Coviello, il 
								valletto di Cleonte.
								Ne nasce una farsa, chiassosa e colorata, che è 
								un altro dei tanti luoghi comuni del teatro 
								comico: la farsa del Gran Turco. Coviello, 
								vestito da turco e parlando un turco 
								maccheronico, si presenta da Jourdain e gli fa 
								credere che il figlio del Gran Turco, di 
								lignaggio reale, è qui per sposare Lucilla, la 
								figlia di Jourdain. Inutile dire che il figlio 
								del Gran Turco altri non è che Cleonte, 
								l’innamorato di Lucilla. Ma, continua il 
								birbante, assecondando la ridicola vanità di 
								Jourdain, l’aspirante sposo “per avere un 
								suocero degno di sé vuol farvi mammalucco, che è 
								una dignità… del suo Paese… Mammalucco, che 
								nella nostra lingua significa paladino… In fatto 
								di nobiltà non si va più in là e sarete alla 
								pari con i più grandi signori della Terra…”(IV,5).
								Ovviamente Jourdain, lusingato dalle promesse di 
								nobiltà, ci casca e ne nasce un fragoroso 
								balletto-farsa con la beffa del conferimento 
								della dignità di mammalucco al povero Jourdain, 
								tutto un gioco coreografico di danze e canti, di 
								finti muftì, di finti dervisci, di finti 
								turbanti: l’unica cosa vera sono le bastonate 
								che si prende stoicamente il neo-paladino 
								credendo sia il rituale necessario alla nuova 
								dignità di mammalucco.
								
								Come finisce la commedia? È facilmente 
								immaginabile: festoso matrimonio per tutti, alla 
								barba del povero Jourdain: si sposano la figlia 
								Lucilla col suo beneamato Cleonte, i loro 
								servitori, Nicoletta e Coviello, ma anche, per 
								la gioia collettiva, lo spiantato conte e la 
								bella marchesa. Col povero Jourdain così allocco 
								da credere che il matrimonio del conte con la 
								marchesa sia solo una finta “per dargliela da 
								intendere” (V,7) alla propria moglie, e fugarne 
								ogni gelosia… Insomma, Jourdain non si arrende: 
								anche al termine della vicenda continuerà a 
								sognare quanto non potrà mai avere, la nobiltà e 
								la sua bella marchesa.
								
								E noi lo lasciamo sognare, insieme agli altri 
								tipi comici del teatro di Molière.
								Come l’avaro, come il malato immaginario, come 
								l’ipocrita Tartufo, anche questo borghese che 
								sogna di diventare un gentiluomo è, nella 
								cultura letteraria europea, un archetipo, è il 
								modello esemplare e imprescindibile del nuovo 
								ricco, dell’arrampicatore sociale, 
								dell’ambizioso che pretende di comprare, col 
								denaro, quei meriti e quei titoli di cui è 
								irrevocabilmente privo.
								
								Milano, 21/5/2008


 
      
